mercoledì 27 Gennaio 2021 - h 13:55

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Arpad Weisz, storia di una vita spezzata

Di Carlo F. Chiesa
da “Bologna Centodieci”, Minerva Edizioni

Negli anni tra le due guerre del secolo scorso fu uno dei più grandi maestri del calcio italiano. Era nato a Solt, in Ungheria, il 16 aprile 1896, e cominciò presto col pallone; a 15 anni entrava nelle giovanili del Torekves, due anni dopo esordiva in prima squadra e intanto studiava  avvicinandosi alla facoltà di Giurisprudenza. La guerra lo strappò alle sue occupazioni: inquadrato nell’esercito austro-ungarico, venne fatto prigioniero il 28 novembre 1915 sul monte Merzli presso Tolmino e internato a Trapani; in quel lungo periodo imparò la lingua italiana. Finita la guerra, riprese a giocare, ancora nel Torekves e in Nazionale, ma ben presto dovette emigrare. L’Ungheria, dopo la breve esperienza bolscevica della “Repubblica dei Consigli” e la successiva sanguinosa repressione, languiva in condizioni economiche disastrose e molti esponenti del suo fiorente calcio espatriarono in quegli anni. Arpad giocò nel 1923-24 in un club di estrazione ebraica, il Maccabi di Brno. La squadra fu impegnata anche in Italia, disputando tra l’altro una gara ufficiosa contro la Nazionale italiana a Bologna il 5 maggio 1924. Weisz, ala sinistra con all’attivo sei partite in Nazionale, nell’estate 1925 veniva ingaggiato dall’Internazionale di Milano. Subito titolare, veniva fermato a fine gennaio 1926 da problemi fisici legati al clima che gli imponevano, con 11 partite e 3 gol all’attivo, la chiusura anticipata dell’attività agonistica dopo il ritorno in campo nell’ultima di campionato il 4 luglio 1926 a Milano (2-1 al Modena). La società gli propose di diventare subito allenatore e lui accettò, inventandosi un mestiere cui era naturalmente vocato. Ottenne nella prima stagione un quinto posto, l’anno dopo trasformò il centromediano Bernardini in centravanti e si piazzò settimo, avendo dovuto scontare la lunga assenza per squalifica della “stella” difensiva Allemandi, cui aveva rimediato inventando una linea di cinque terzini: in pratica, l’anticipazione in Italia del Sistema che Chapman aveva inventato oltremanica. In quel torneo lanciò un diciassettenne, Giuseppe Meazza, destinato a diventare il più grande giocatore italiano. Il piazzamento non soddisfacente provocò la sostituzione di Weisz col connazionale e amico Joszef Viola. Arpad tornò in patria ad allenare lo Szombathely, squadra della città in cui conobbe la futura moglie e che, salpando da Lisbona, guidò in una tournée di circa quattro mesi in America Latina, a Cuba, in Messico e a New York. Nell’estate del 1929, Aldo Molinari, il segretario del suo vecchio club – diventato nel frattempo Ambrosiana-Inter – di cui aveva assunto la reggenza, lo richiamò in Italia, offrendogli di tornare ad allenare la squadra. Weisz vinse lo scudetto, a soli a 34 anni. A fine stagione pubblicò assieme allo stesso Molinari un manuale, “Il giuoco del calcio”, con la prefazione del Ct della Nazionale, Vittorio Pozzo, contenente una serie di indicazioni preziose per ogni protagonista del mondo del pallone e straordinarie anticipazioni tattiche (il volume è stato ristampato anastaticamente nel gennaio 2018 da Minerva Edizioni di Bologna).. L’anno dopo colse il quinto posto, sufficiente a fargli cambiare di nuovo aria. Salvò il Bari (spareggio vincente sul Brescia a Bologna il 16 giugno 1932) e tornò all’Ambrosiana, per due secondi posti consecutivi, intervallati dalla finale di Coppa dell’Europa Centrale persa contro l’Austria Vienna. Nella stagione successiva guidava il Novara, in Serie B, ma a fine gennaio 1935 veniva chiamato a Bologna dal presidente Dall’Ara a sostituire Kovacs, sofferente per i postumi di un infortunio occorsogli durante un allenamento.

Ben presto Weisz, definito dal “Calcio Illustrato” «l’allenatore straniero che meglio parla la nostra lingua, di cui conosce a fondo le finezze» si ambienta nel capoluogo emiliano. Chiuso il torneo al sesto posto, riorganizza la squadra, preparando il periodo più fulgido della storia rossoblù. Dall’Ara invia oltreoceano il preparatore atletico Filippo Pascucci, primo collaboratore di Weisz, perché riporti a casa il “fuggitivo” Fedullo e vi aggiunga un nuovo centromediano in sostituzione dell’ormai decaduto Occhiuzzi. Pascucci torna con Michele Andreolo, fuoriclasse di 22 anni di origini italiane, tesserabile come “oriundo”. Con il giovane Fiorini in difesa al posto di Monzeglio, ceduto a peso d’oro alla Roma, Weisz disegna uno squadrone formidabile, che utilizzando appena 14 elementi vince il campionato 1935-36 e fa il bis in quello successivo, in cui ha dovuto sostituire due leggende ritiratesi dall’agonismo, il portiere Gianni con Ceresoli e il centravanti Schiavio col livornese Busoni. Dopo la fine di quel campionato 1936-37, il Bologna di Weisz raggiunge il culmine, tramandandosi alla storia come il più forte di tutti i tempi con la vittoria del Torneo dell’Esposizione di Parigi, una sorta di campionato del mondo per club. I giocatori sono tutti con il loro tecnico, abile non solo nella “lettura” delle partite, ma anche come gestore di uomini. Autorevole senza bisogno di essere autoritario (non alza mai la voce), ha un modo tutto suo per… punire chi sbaglia: lo invita a pranzo a casa sua e nell’amabile atmosfera conviviale lo convince a correggersi. Dopo un quinto posto, mentre sta avviando il terzo trionfo tricolore personale in quattro anni, l’artefice del più grande Bologna della storia sparisce per sempre di scena.

A fine ottobre 1938 è costretto a lasciare l’Italia dalle infami leggi razziali, essendo straniero di origine ebraica. Nel silenzio generale (nemmeno un commento sugli organi di stampa) si dimette dal Bologna a fine ottobre 1938 e a gennaio 1939 parte con la famiglia per Parigi. Nella capitale d’Oltralpe dovrà scegliere tra allettanti proposte francesi e un’altra molto più aleatoria proveniente dall’Olanda. Il 10 febbraio 1939 spiega in una lettera all’amico Mario Montesanto da Parigi: «Quanto a me, come vede, sono ancora a Parigi, ma non più tardi di questa sera dovrò prendere una decisione. Per essere preciso, le devo dire che ho perso quattro settimane coll’aspettare ad un visto olandese… cioè appena sono arrivato, è venuto a Parigi il Presidente della federazione olandese, l’accordo è stato raggiunto presto, ma ci voleva il benestare della Camera del Lavoro di Aja per avere il visto. E questo permesso fino ad oggi, non sono riuscito ad ottenerlo, anzi io ho già rinunciato a tutto l’affare senonché stamattina mi giunge un espresso da Rotterdam che mi fa sperar bene. In questo momento non so cosa fare. Nella vana attesa del visto mi sono messo a lavorare qui. M’attende un contratto provvisorio a Lilla. Poco tempo fa ancora mi avvertono che mi cerca il Presidente (un gran signore) del Racing Club Parigi il quale mi riceverà oggi alle 16.30, quindi non posso dire niente di preciso, ma devo decidermi entro oggi dovendomi trovare domani a Lilla. Se potessi seguire la mia volontà, andrei in Olanda, il che oggi significa la pace, la calma la sicurezza e anche la tasca piena… Qui in Francia si sta bene, Parigi è brillante, come era nel 1937, ma c’è una preparazione fantastica d’animi e materiale per ogni eventualità. Chi sa dove vanno a finire le cose?». Il timore che la Francia potesse far gola a Hitler gli suggerì dunque di accettare l’offerta proveniente da un piccolo centro dell’Olanda, Dordrecht, la cui squadra era quasi spacciata nella fase finale del massimo campionato. Ignaro che di lì a poco i tedeschi in pochi giorni si sarebbero impadroniti anche del paese dei tulipani, il 19 giugno 1939, a salvezza (miracolosa) conquistata, scriveva, sempre a Montesanto a Bologna: «Come Lei lo sa, mi son preso un gran peso sulle spalle nell’accettare l’offerta olandese. Non so neanch’io perché non sono rimasto a Lilla dove mi hanno offerto un contratto così vantaggioso. A Dordrecht le condizioni del contratto erano molto peggiori che a Lilla, poi c’era un periodo di prova di quattro mesi con una squadra la cui sorte era segnata… Si vede ch’io non posso più vivere tranquillamente; quando mi mancano i pensieri, preoccupazioni e emozioni, vado a cercarli. Oggi, che il periodo di prova è superato, e la squadra che sembrava essere condannata inevitabilmente alla retrocessione è salva, forse non mi pento più della scelta del paese. La gente si dimostra abbastanza riconoscente in senso morale e materiale. Posso dire che durante la mia carriera d’allenatore non ho mai avuto tanta manifestazione di simpatia come adesso. Anche in questo momento, a nove giorni di distanza dall’ultima partita, c’è ancora un gran cestino di fiori che tiene profumata la nostra camera. Come vede, questa volta dò notizie buone di me! Speriamo che l’avvenire non prepari alcuna disillusione per noi!». L’anno dopo piazza il Dordrecht a un lusinghiero e inatteso quinto posto finale in classifica, ma il 10 maggio 1940 la Germania ha invaso l’Olanda. Conquistato un nuovo quinto posto, a fine settembre 1941 Weisz verrà costretto a lasciare il lavoro e a sbirciare dalle assi della staccionata che delimita il campo di allenamento i suoi ragazzi al lavoro col nuovo tecnico. Seguono mesi duri, finché il 2 agosto 1942 è arrestato dalla Gestapo assieme alla moglie Elena e ai piccoli figli Roberto e Clara. Dal campo di raccolta di Westerbork il 2 ottobre 1942 i quattro vengono caricati su un treno blindato, destinazione Auschwitz, in Polonia. Dopo tre giorni di viaggio in condizioni inumane, Arpad viene dirottato ai lavori forzati nell’Alta Slesia. Elena, Roberto e Clara raggiungono Auschwitz-Birkenau, dove vengono subito eliminati in una camera a gas. Deportato a propria volta ad Auschwitz, Arpad Weisz resiste fino al 31 gennaio 1944, quando muore di stenti dopo atroci sofferenze. Tutto questo sapremo nei dettagli solo tanti anni dopo, grazie al lavoro di ricerca del giornalista bolognese Matteo Marani. Fino a quel momento (2007) si conosceranno solo alcuni punti cardine di un calvario che addirittura nell’immediato dopoguerra si tendeva a negare. Tragica ironia della sorte, infatti, a Bologna durante il campionato 1945-46 correrà voce che Weisz sia sopravvissuto. Il 28 marzo 1946 il quotidiano del pomeriggio “Cronache Sera” diretto da Enzo Biagi scrive: «I tifosi bolognesi chiedono il ritorno di Weisz – Si annuncia prossimo il ritorno di Ermanno Felsner al quale verrebbe riaffidata la direzione dei rosso blu. La notizia, a quanto ci consta, non ha sollevato eccessivo entusiasmo negli ambienti dei tifosi bolognesi i quali preferirebbero il ritorno di Weisz, l’uomo che seppe conferire alla squadra petroniana una inconfondibile fisionomia. Come è noto, Weisz, per le inique leggi razziali, fu costretto ad emigrare. Dapprima si trasferì in Olanda, ad Amsterdam, dove la maggiore compagine locale sotto la sua guida vinse il campionato olandese, poi fu chiamato in America. Dove sia ora non si sa, ma non dovrebbe essere impossibile rintracciarlo e proporgli di riassumere le funzioni di allenatore. Il Bologna avrebbe tutto da guadagnare». Le voci, come si vede, anche allora facevano presto a diventare notizie false. Purtroppo non lo era solo quella della vittoria del campionato olandese, ma anche la diceria della fuga in America. Il grande Weisz non sarebbe tornato mai più.

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